domenica 17 gennaio 2010

RECENSIONE di BAYASUL

LE RECENSIONI

La recensione di Alessandro Paesano su TEATRO.ORG


Bayasul: il teatro incontra l'Antropologia

Partendo da Giorni Felici di Samuel Beckett Vania Castelfranchi appronta uno
studio su alcuni aspetti della cultura della Mongolia, intelligente e
pienamente riuscito.
Beckett è quasi un pretesto per parlare d'altro ma non è comunque una scelta
a caso. E non solo per la lettura precisa che Castelfranchi fa di un teatro,
come quello del drammaturgo Irlandese, in cerca del rito quando ormai quel rito
per la società occidentale, svuotato di ogni significato, non c'è più, ma anche
per il posto che Beckett ha nell'immaginario collettivo dei non esperti di
teatro, quello di un di un autore esotico, impenetrabile, stravagante, proprio
come la cultura mongola che, seppure presente nel nostro immaginario
collettivo, è altrettanto misteriosa e oscura.
Da solo in scena, dapprima nascosto da dei cuscini dai quali emerge fino al
busto proprio come Winnie il personaggio centrale di Giorni felici, prima di
aggirarsi libero per una scena, sul fondo della quale passano delle diapositive
con paesaggi urbani e naturali della Mongolia, Castelfranchi imbastisce uno
spettacolo chiedendo una discreta ma concreta partecipazione del pubblico in
sala, mentre racconta la sua esperienza in Mongolia, rendicontando di un
viaggio fatto presso i nomadi Mongoli, mentre leggeva Giorni felici di
Beckett.
Lo studio procede su quattro momenti. La presentazione di un Ovo spirito
degli antichi al quale i mongoli tributano un segno di devozione ponendo un
piccolo sasso. E, come fossero anche lor al suo cospetto, Castelfranchi chiede
al pubblico un gesto di rispetto una giravolta, per omaggiare l'Ovo (la
giravolta è per noi occidentali i Mongoli possono girare attorno all'Ovo).
L'esercitazione alla pronuncia di un suono mantrico che segnala il
cambiamento repentino, da fare ponendo di volta in volta una mano sulla fronte
e l'altra sulla nuca, invertendole ogni volta che il suono viene pronunciato (t-
chià). Poi mentre Castelfranchi scompare al mondo (nascondendosi dietro un
lenzuolo bianco che in una Mongolia, innevata a 30 gradi sotto lo zero,
corrisponde a camuffarsi col territorio) fantastica di ricomparire al mondo da
un altra posizione, invitando gli spettatori a fare altrettanto mostrandosi
alla sua ricomparsa in una diversa posizione, chiedendo in sostanza di cambiare
posto. Infine la danza-gioco in cui ogni partecipante (mongolo) è un piccolo
dio, un dio per gioco che immagina di creare qualcosa (non per sé, ma per gli
altri) qualcosa che, sicuramente, si materializzerà davvero, ma chissà dove. E
ogni spettatore, ogni spettatrice, è chiamato a chiudere gli occhi e pensare
alla sua creazione rimanendo a occhi chiusi finché non sente che la creazione
pensata si sia davvero materializzata. Su questi elementi Castelfranchi dipana
il suo discorso partendo dalla semplice domanda in cosa consiste per un Mongolo
il bayasul un "giorno felice", parola che dà il titolo allo studio.
La risposta è un excursus complesso eppure reso comprensibilissimo e
esistenzialmente spendibile su alcuni elementi della cultura mongola, in
contrasto con la nostra vita e la nostra cultura, senza mai dimenticare però le
componenti storiche ed economiche del Paese. Così vediamo (tra le diapositive)
i segni della dittatura sovietica nell'unica grande città occidentale del
Paese, dove i bambini dormono nei sotterranei, accedendovi dai tombini, per
resistere meglio alle temperature notturne (-30 C°), mentre moltissimi giovani
sono corsi a popolare la "metropoli" attirati dagli stessi miti di noi
occidentali, con la conseguenza che la vita che la città offre è così lontana
da quella cui i nomadi sono abituati in mezzo alla natura che i consiglieri
spirituali suggeriscono agli uomini di dimenticare che al di fuori della città
ci sia la natura incontaminata e che tutto va bene (mentre alle donne
suggeriscono di avere pazienza e comprensione con gli uomini che proprio non ce
la fanno a sopportare quello stato di cose) e intanto offre loro del cibo (come
Castlefranchi fa con alcuni e del pubblico).
Consigli spirituali, contro il possesso degli oggetti materiali (un nomade
quando è ricco possiede 10 oggetti non di più), che tanto in natura sono
presenti e si possono prendere se se ne ha davvero bisogno (e spiega questo
concetto raccontando di una tradizione che i nomadi mongoli fanno con i bambini
piccoli, messi sui cavalli e lasciati andare al trotto, mentre la casa, la
tenda, viene spostata altrove sottraendosi al timore della perdita).
Contro la ricerca della fluidità a favore di cambiamenti energici, repentini,
bruschi, evidenti, perchè così avvengono in natura, che non ha la fluidità
delle buone maniere cui siamo abituati noi occidentali. Ancora la capacità e la
disponibilità a non esserci sempre, per permetterci di cambiare ma di far
cambiare anche gli altri.
Insomma uno studio, uno spettacolo che si trasforma per lo spettatore in una
esperienza vera, viva, niente affatto retorica, dandogli la possibilità di
vivere più che di assistere a messa in scena di antropologia teatrale,
all'interrogazione cioè di un testo, quello di Samuel Beckett del quale
Castelfranchi legge alcuni brani, secondo le istanze di una cultura altra
attraverso la quale il testo può essere scardinato e riletto in altra chiave,
ma dove, al contempo, quella cultura altra, perturbatrice, viene compresa in
tutta la sua valenza antropologica nella sua essenza di costrutto umano e
dunque non di un assoluto naturale eternamente dato ma come prodotto di una
storia, di un processo, di un viaggio squisitamente umani.
La compagnia Ygramul, di cui Vania Castelfranchi fa parte, e della quale
avevamo già avuto modo di recensire una splendida Affabulazione di Pasolini,
torna a fare meraviglie con uno spettacolo (uno studio) serio, sincero,
profondo e comprensibile, lontano anni luce da ogni speculazione
intellettualistica che operazioni del genere di solito rappresentano, condotta
con semplicità e umiltà, dote che, per un attore (e non solo), è una conquista
preziosa e rarissima.
Un'esperienza che intender non la può chi non la prova le parole di chi
scrive essendo come non mai inadeguate a restituire emozioni, intuizioni e
sentimenti.

Visto il 14/01/2010 a Roma (RM) Teatro: Abarico

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