mercoledì 28 novembre 2007

martedì 27 novembre 2007

Il lavoro di Ygramul - Colloquio con Vania Castelfranchi

Com’è nato lo spettacolo?
"Edzi Re" non è il primo spettacolo che nasce sull’impronta del nostro studio sull’antropologia teatrale: da tanti anni lavoriamo cercando di creare una metodologia di costruzione di uno spettacolo antropologico, che si basa su alcune cose che ha narrato e ha vissuto Eugenio Barba sull’evento che gli attori devono vivere, esperienziale, sulla loro pelle e poi riuscirlo a travasare attraverso una drammaturgia scritta corporea o vocale.
Ci vuole, quindi, un’esperienza fisica molto presente, di reale contatto, senza filtri. Perciò abbiamo fatto viaggi in Brasile, in Amazzonia… e poi siamo andati in questo piccolo paese che si chiama Malawi: in qualche modo era un luogo degli estremi, dove gli attori potevano entrare in diretto contatto con l’estremo dell’Aids. Lo spettacolo è nato da questa idea di viaggio: abbiamo vissuto un mese e mezzo in Malawi, siamo stati in tanti villaggi guidati da una sorta di capa che si chiamava Imafuta. È una capa di un’associazione di persone che hanno avuto dei parenti morti per Aids e che organizzano una specie di soccorso nei villaggi per portare materiali ma soprattutto per portare informazione attraverso questa donna. Da questo viaggio nasce una parte del testo molto diaristica, nel senso non sciocco del termine: non semplicemente fatta da quello che ci è accaduto, ma da quello che si è vissuto personalmente… anche dalle contraddizioni, da quello che si potrebbe chiamare "La mia Africa" per ogni attore. La drammaturgia è questa rete di pagine, scritti, anche idee molto spesso vocali e corporee, fotografie e filmati che vengono da dieci teste diverse che hanno vissuto quel viaggio.
Dall’altro lato si affrontano dei temi solitamente nei nostri percorsi di viaggio, come un antropologo che va a studiare un luogo e si immerge in quel luogo ha bisogno di un filtro: deve avere una tematica, una sorta di corrimano, altrimenti il labirinto è troppo complesso. Noi avevamo come tematica quella dell’Aids, sviluppandola lì abbiamo cominciato a collegarci dei testi. Un testo col quale eravamo già partiti, che era lo spettacolo che facevamo lì in Africa, era, appunto l’Ubu Re, perché dal nostro punto di vista una delle tematiche molto forte sull’Aids era la quella del re, del regno: lavorando a Roma con dei malati di Aids in alcune comunità, una delle tematiche più belle sulle quali il lavoro era stato stimolato era che in realtà questa malattia veramente non si comprende se esista o meno, se ci sia, è più come una dittatura. Si entra in un clima che è questo della sieropositività come se si fosse dentro a un regime autoritario e molto forte, dove uno sente che gli sono negati tutti i diritti però nella concretezza non è sicuro di vederla questa cosa: sa che non si può affaticare, sa che non si può ammalare in nessun modo, sa che si deve proteggere da tutte le altre persone perché ognuno porta dei germi che gli fanno del male, sa che deve avere una terapia molto intensiva costosissima, che non si può permettere quasi sempre. Ma queste informazioni sono tutte condizioni veramente da dittatura: nessuno ha la certezza che tutto questo sia vero, perché i medici non sono certi al cento per cento, nemmeno gli psicologi, nessuno ha la certezza.
Quindi avevamo lavorato sul concetto del regno, sull’Ubu che è un re, un re assurdo, folle, patafisico, e al nostro ritorno abbiamo acchiappato le parole di Sofocle sul re Edipo, perché veramente in maniera profonda con Sofocle riuscivamo a capire come il concetto di regno e di re è quello di non coscienza, cioè dove si accetta un re e una dittatura non c’è la coscienza, perché il re - come Edipo - è il primo a non avere coscienza di quello che ha fatto, dei reati che ha commesso e quindi più il popolo accetta il re più il popolo si addormenta e diventa lui malato.

Perché rappresentare la vostra esperienza con una scenografia del genere, a me ha dato la sensazione che fosse qualcosa di realmente pesante e però qualcosa attraverso la quale si poteva anche urlare?
In realtà ci sono, come al solito, tante connessioni però, fondamentalmente erano importanti vari elementi: prima di tutto il fatto che noi ci affidiamo al ferro e viviamo in strutture fatte di ferro e di cemento che crediamo solide, mentre nello spettacolo si capisce come tutte le figure geometriche ferrose, in realtà, si smontino con grande facilità. Questa è la prima sensazione che volevamo dare, di questa falsa sicurezza che il metallo e la geometria ci danno.
La seconda cosa che il lavoro degli attori in scena, per me, deve essere sempre molto, molto fisico, molto concreto, per riportare alla vita durante lo spettacolo l’esperienza. Creare delle imprecisioni, creare dei grandi momenti di imprevedibilità e di imprevisto, permette di rendere nello spettacolo una parte quasi performativa: le cose avvengono in quell’istante. Mentre, viceversa, in metodi di grande fissità, di grande struttura, c’è una grande pulizia che è meravigliosa anche esteticamente, però rischiano spesso la morte rispetto a quello che diceva anche Julian Beck, cioè la non vita del teatro.
È importante che anche gli spettatori avvertano questa comprensione reale: lo schema può perdere pezzi, le viti si smontano e nessuna cosa può essere realmente controllata o inscritta in una forma geometrica, ma si spezza se uno la forza. Quindi anche tu che ti siedi in uno spazio teatrale che è ben geometrizzato e ben costruito devi sapere che in realtà un evento di rischio c’è anche per te, perché è un falso storico che tu sei protetto dalla tua sedia e dal tuo posto di spettatore.

Quindi come avete lavorato per la costruzione dal testo scenico? Quelli erano gli attori che interpretavano dei personaggi o eravate voi?
È una cosa un po’ brechtiana… Rappresentano se stessi trasformati in personaggi.
Il testo ha un passaggio molto strano: di solito iniziamo lo spettacolo in italiano, lo portiamo in un luogo e lo traduciamo nella lingua locale, mentre quando si torna si scarica di questo peso linguistico e si riprende l’italiano, che però si porta addosso un sacco di ombre belle di quelle sonorità. Quindi nello spettacolo sbuca fuori l’africano, poi c’è una cosa in inglese, poi c’è un suono francese… Perché io amo molto lo sporco in realtà, il lavorare al non finito, il lasciare un sacco di chiaroscuri e un sacco di ombre. Ritengo che gli attori siano sporchissimi di per sé, che i nostri corpi siano meravigliosamente sporchi, slabbrati… ognuno è sdentato, c’ha delle forme fisiche diverse, grandezze, carni, cicce, gonfiori…e questa cosa è assolutamente da privilegiare da parte di un regista. Un regista dovrebbe fare la radiografia dei propri attori e non portarli in un campo di sterminio cercando di renderli tutti più magri possibile, ma portarli al gonfiore di Ubu, a fare esplodere i propri bubboni e deformarli il più possibile, questo in bellezza, in un gioco circense quasi…
Lo amo molto questo, che è l’obiettivo da raggiungere. Stiamo sul primo gradino però è in qualche modo il miraggio, no? Quindi il testo passa attraverso queste lingue, si mischia… Poi ci sono i diari: anche quelli passano attraverso i conflitti perché noi ci incontriamo dopo il viaggio, uno legge la sua pagina di diario, l’altro legge la sua di quella stessa visione e si ammazzano tra di loro, perché hanno vissuto due cose all’opposto e allora non c’è compromesso. C’è uno scontro violentissimo che non è salvabile e allora da questi scontri nasce il testo, perché il testo, per me, deve essere appunto il più paradossale e violentemente percussivo possibile, come in Jarry.

Fabio Franceschelli: siccome in gran parte venite dall’Accademia, per voi è stato un problema liberarsi dalle impostazioni accademiche?
Si, perché all’accademia il fine è il mezzo. La grande difficoltà, la prima, che ho trovato con gli attori, è convincerli che il loro mezzo è buonissimo, il loro strumento è buonissimo, l’accademia gliel’ha tutto lavato e ripulito, ma ora è il momento di usarlo male. È veramente difficile perché non si lasciano andare. Gli attori dell’accademia sono i primi con i quali si fa a botte perché è difficile convincerli che il mezzo deve essere pulitissimo ma per fare una cosa, confusissima, sporchissima, disordinatissima. È un discorso per me molto organico. Stiamo creando una metodologia di lavoro nostra che si chiama Esoteatro e che si basa sulla disorganicità, di Artaud, fondamentalmente dal Teatro della Crudeltà. Pensare che noi abbiamo un corpo che apparentemente è molto pulito ed ordinato… In realtà è totalmente disorganico: gli organi si spostano e viaggiano dentro di noi, le energie non sono minimamente controllabili, le scariche elettriche vanno dove caspita vogliono, le malattie sorgono come gli va perchè non c’è nessuna ragione fondamentale e noi fingiamo di dare il potere alla medicina, di capire di fare una mappatura… Ma che in realtà bisognerebbe, come nei metodi tibetani, nei metodi indiani, lasciarsi trasportare da questo disordine continuativo, che è una fiumana di roba che succede. Perché ti permette di non contrastare la corrente, di viaggiarci e forse di vivere fino a trecento anni senza farti venire il tumore e di lavorare con cento voci invece che due.

venerdì 23 novembre 2007

Colpi di arma da fuoco contro 4 Indiani Guarani

Quattro Indiani Guarani sono stati feriti sabato scorso nel corso di un conflitto con gli allevatori che occupano le loro terre nello stato del Mato Grosso do Sul, in Brasile. I latifondisti li hanno colpiti con armi da fuoco per sfrattarli dall'area di Kurusu Mba ("il posto della croce"). Un gruppo di circa 100 Indiani aveva rioccupato Kurusu Mba giovedì 15 novembre. Avevano cominciato a costruire dei ripari sotto gli occhi delle guardie di sicurezza dei latifondisti. Ma sabato l'intera comunità è stata sfrattata e trasferita con dei camion nel minuscolo appezzamento di terra dove aveva vissuto prima della rioccupazione. I Guarani di Kurusu Mba avevano già rioccupato la loro terra in gennaio. Anche in quell'occasione erano stati sfrattati e la loro leader religiosa Kuretê Lopez era stata assassinata dalle guardie. Un altro leader della comunità, Ortiz Lopes è stato ucciso con un'arma da fuoco sulla porta di casa lo scorso mese di luglio. Secondo la testimonianza della vedova, l'uccisore avrebbe dichiarato: "I proprietari terrieri mi hanno mandato a vendicarsi di voi"

Uno dei Guarani ferito sabato, una ragazza di 22 anni, Angélica Barrios, è ancora in ospedale.

[ segnalato da Mirella Di Biagio / sulleali_2000@libero.it ]

giovedì 8 novembre 2007

Esodi / un passo verso le genti che stanno arrivando

L'Associazione Ma.Nó presenta
Mostra Itinerante
a favore della Casa dei Diritti Sociali FOCUS
10-17 novembre 2007



PRESSO
MOTO DELLA MENTE
Via Monte Giordano 47 ROMA
ore 16.00 - 22.00 ingresso libero


 sabato 10 novembre, ore 18.00
Presentazione del progetto con la
Casa dei Diritti Sociali FOCUS http://www.dirittisociali.org/
ore 21.00
SudTeatroCenit
Presenta
Estratti da: MARIA MAGDALENA
Liberamente tratto da Maria Magdalena o la salvezza dal testo Fuochi di
Marguerite Yourcenar
Di Beatriz Camargo Con Nube Sandoval
Attraverso la storia della Maddalena, lo spettacolo tratta i temi di
diseguaglianza, abbandono e guerra dalla prospettiva dell'universo
femminile. Mondi onirici intrecciati alla austera materialità che
universalmente fa diventare tutte le guerre uguali.

domenica 11 novembre, ore 17.00
Il Gruppo EsoTeatrale Integrato di Ricerca Patafisica Ygramul LeMilleMolte
presenta
MONDO FIABA
con Monica Crotti, Massimo Cusato, Paolo Parente, Antonio Sinisi, Aida
Talliente
musica dal vivo: Daniele Pittacci
regia patafisica: Vania Castelfranchi
Spettacolo per bambini/e e adulti costruito sulla narrazione di fiabe e
storie provenienti da quattro differenti terre del mondo: favole africane,
racconti dal sud del Brasile, leggende dell'Amazzonia e canti e storie
balinesi. La narrazione viene giocata con il pubblico in un'interazione
continua, alternata da musiche, danze, immagini e oggetti dei popoli Guaraní
Kaiowá, Sateré Mawé, Chewa e Yaho e le maschere di Bali.

lunedì 12 novembre
Dalle 16.00 alle 21.30 proiezioni video

martedì 13 novembre, ore 21.00
La compagna teatrale Il NaufragarMèDolce
Presenta PANE E OLIO di Chiara Casarico
con Chiara Casarico, Giovanna Conforto, Rita Superbi
Storie vere, storie vissute, legate al cibo al lavoro, alle condizioni di
vita tanto diverse da parte a parte del pianeta terra. Una riflessione sui
nostri stili di vita...

mercoledì 14 novembre, ore 17.00
L' Associazione Prezzemolo
Presenta GIOCATHE
L'Associazione Prezzemolo, da tempo impegnata sui temi dell'intercultura,
propone un'esperienza ludica di giochi, chiacchere e the dal tutto mondo.
Per grandi e piccoli.

giovedì 15 novembre, ore 17.00
L'arte della Miniatura persiana
Incontro con
Fereshte Rezaifar
La miniatura in Iran si chiama negargaré. E' un'arte molto antica, le cui
prime testimonianze risalgono a 2500 anni fa. Nel periodo preislamico la
miniatura veniva utilizzata per decorare le pareti dei castelli dei re. Con
l'avvento dell'islam e la conseguente proibizione di raffigurare immagini di
persone o di animali, i pittori più importanti sono emigrati in altri paesi
(India e Cina) dove hanno continuato loro attività. Fereshte Rezai'far con
la sua arte testimonia che la miniatura costituisce ancora oggi una forma
artistica attuale i cui caratteri iconografici tradizionali riflettono
valori estetici e simbolici universali.

venerdì 16 novembre, dalle ore 19.00
Prove aperte con LINEA B + JOES GARAGE
Solo musica originale, solo in italiano.

sabato 17 novembre, ore 20.30
Serata conclusiva
A MODO BIO - campagna educativa-formativa su storia, tradizioni, gusti,
arti, intercultura - presenta:
Incontro con la neo-costituita Rete Italiana impegnata sulla Diaspora
Africana
Per la rete parteciperà una delegazione guidata dal portavoce, il
Consigliere Aggiunto Victor Emeka Okeaadu.
Seguirà degustazione di cibi senegalesi
A cura di Casa dei Diritti Sociali e i centri di servizio per il
volontariato del Lazio CESV e SPES.

Durante l'esposizione verranno anche proiettati i video:

Migranti a Roma
Corteo Nazionale del 4 dicembre 2004
Video-documento ideato e prodotto dall'Associazione Ma.N? in occasione del
corteo nazionale del 2004. Le voci e le testimonianze dei migranti giungi a
Roma da tutta Italia. Durata 15 minuti.

Sopravvivere alla tortura.
Dentro un'esperienza di riabilitazione psicosociale:il teatro
Video-documento sull'esperienza teatrale del Progetto VI.TO, Accoglienza e
cura delle Vittime di Tortura del Consiglio Italiano per i Rifugiati. Regia:
Artigiani Digitali. Durata: 19 minuti

Le vittime dimenticate
Documentario che indaga su quelle persecuzioni perpetuate dal nazi-fascismo
di cui si parla di meno: quelle contro Rom, disabili, omosessuali,
emarginati. Non una ricerca storica fine a se stessa, ma piuttosto uno
spunto di riflessione sulle persecuzioni di ieri e sulla lotta per la
conquista dei diritti per ragionare sull'oggi: Possiamo godere tutti di quei
diritti per cui i Partigiani hanno combattuto o tra di noi ci sono ancora
dei perseguitati? Una produzione di Casa dei Diritti Sociali e Esplorare la
Metropoli. Autori:Riccardo Russo e Paolo Barbieri.
Durata: 20 minuti

La Terra Senza Male / Viaggio tra i Guaraní-Kaiowá
Diario di viaggio del Gruppo Ygramul tra i Guaraní-Kaiowá del Mato Grosso
del Sud, Brasile. Testimonianze dei capi indigeni e relazione dei progetti
realizzati dalle associazioni Yumimeya, Ma.Nó, Walter Rossi e Gruppo
teatrale Ygramul LeMilleMolte che dal 2001 appoggiano la lotta dei
Guaraní-Kaiowá, sostenendoli nel processo di riassegnazione delle terre.
Ideato e prodotto da Ygramul, Associazione Ma.N?, Associazione Walter Rossi,
Yumimeya. Durata: 27 minuti.

Pang'ono Pang'ono
Film documentario sul viaggio in Africa, nel cuore del Malawi, dal Gruppo di
Teatro Ygramul LeMilleMolte, con l'obbiettivo di riuscire a sperimentare il
teatro come mezzo di scambio culturale e di prevenzione dal contagio di
HIV/AIDS. Regia: Silvano Magnone. Durata: 26 minuti

Info e contatti Associazione Ma.Nò
http://www.associazionemano.it/ - ma.no@tele2.it

lunedì 5 novembre 2007

ygramul: Mamadou Dioume / seminario intensivo

http://www.ygramul.net/laboratori.htm

Mamadou Dioume / seminario intensivo

19-22 novembre
dalle 13:30 alle 19:30
(tranne mercoledi, ore 11:30 - 16:30)
"... percorso laboratoriale sugli strumenti dell'attore attraverso il training... "

Mamodou Dioume si diploma presso la "Scuola Nazionale delle Arti" in Senegal e affronta i suoi primi ruoli nella Compagnia d'Arte Drammatica. Nel 1968 interpreta il personaggio di Creonte nell'Antigone di Jean Anouilh, prova che gli vale l'ingresso al Teatro Nazionale "Daniel Sorano", dove lavora fino al1984, sotto la direzione di Raymond Hermantier.
In quell'anno lo scopre Peter Brook e lo chiama ad interpretare Bhima nel "Mahabharata". Recita il ruolo in francese (Festival d'Avignon - 1985 e poi Parigi - 1985), quindi in inglese nella pluriennale tournée in tutto il mondo.
Partecipa anche alla realizzazione del "Mahabharata" cinematografico nel 1989 e rimane fedele a Brook e al Centre International de Créations Théatrales.
Figura di rilievo in molti spettacoli del regista inglese (La tragedia di Carmen, Woza Albert, La tempesta).
Dal 1991 Mamadou si dedica alla formazione degli attori e alla regia.
Dal 1998 collabora con la Compagnia Teatrale "Atelier" allo scopo di creare un centro di ricerca internazionale.

Quota d'iscrizione: € 150 da versare entro il 12/11
n° minimo partecipanti: 15 / n° massimo partecipanti: 20

Informazioni e prenotazioni:
info@ygramul.net / 339 8886897 / 331 4703950

domenica 4 novembre 2007

Discorso di accettazione del premio Sonning

Università di Copenaghen, 19 aprile 2000

Cari amici,
vorrei cominciare con un sogno. Vi è un uomo legato a un palo, sulla terrazza di un tempio. Tenta di liberarsi. Invano. Si ostina. Sfere di vetro cadono dai suoi occhi e si frantumano al suolo in mille schegge. Due giaguari ritti sulle zampe posteriori, si fanno avanti, danzano sulle schegge di cristallo, e i loro piedi - non zampe di giaguari, ma piedi umani - lasciano scie di sangue sulla terra. Ed ecco che uno dei giaguari conficca una selce acuminata nel cuore del prigioniero. Dal petto squarciato non zampilla sangue, ma un libro che arde, e poi ancora un secondo libro, e un terzo, e tanti altri, decine, centinaia di libri in fiamme che si accumulano in un rogo gigantesco davanti all’uomo legato.
La persona che sta sognando si chiama Kien ed è uno studioso, uno che ama i libri. Nel suo sonno agitato urla al prigioniero: "chiuditi il petto, chiuditi il petto". La vittima lo sente e in uno sforzo sovrumano strappa i suoi legami, porta le mani alla ferita, la apre ancora di più, e una valanga di libri in fiamme rotolano fuori.
Il dormiente non riesce a sopportare questa vista, salta dentro il proprio sogno, dentro il rogo, per salvare i libri che stanno diventando cenere. Le fiamme lo accecano, centinaia di persone che urlano, che si dimenano e soffrono lo afferrano e gli impediscono di porre i libri in salvo. Si svincola dalle loro mani che lo avvinghiano, li insulta, fugge via dalle fiamme. Quando è al sicuro, vede gli uomini tramutarsi lentamente in libri che si consumano nel fuoco in silenzio, come eroi o martiri.
Kien, l’autore di questo sogno, è il protagonista di un romanzo di Elias Canetti, un ebreo nato in Bulgaria, che studiò in Germania e scrisse in Inghilterra i libri che gli valsero il premio Nobel. È lo stesso Canetti che verso la fine della sua vita affermava che non si abita un paese, ma una lingua. Che rimane, però, di un individuo che ha perso sia il suo paese che la sua lingua? Forse l’essenziale. E che cos’è l’essenziale per noi dell’Odin Teatret, che non possiamo essere identificati in una lingua o in un paese?
Per comodità o per convenzione, i premi vengono spesso conferiti a una persona, quindi legati a un nome. Ma dietro questo nome si cela un microcosmo che palpita, vive ed agisce. La persona e il nome sono la punta dell’iceberg, nascosta rimane la massa compatta, quell’intricata rete di relazioni, collaborazioni, affinità, scambi e tensioni che costituiscono un organismo vivente, che naviga le correnti del tempo, a volte seguendole, a volte rifiutandole, ma sempre in una posizione che lui stesso ha assunto.
È a questo iceberg che è stato dato il premio Sonning. È all’intero Odin Teatret, a questo gruppo di uomini e donne che provengono da diverse nazioni, culture, religioni e lingue che l’Università di Copenaghen conferisce l’onorificenza e i soldi come riconoscimento per il suo operato.
Ma questo iceberg ha pendici più vaste del numero di coloro che hanno fatto o fanno parte dell’Odin Teatret. Comprende anche quei politici di Holstebro che ci accolsero quando eravamo così piccoli da poter passare per la cruna di un ago, quando eravamo giovani ed anonimi, in un periodo in cui esser giovane non era segno di vitalità e potenzialità creativa, ma solo di inesperienza. È all’intero Odin Teatret e ai responsabili della municipalità di Holstebro che lo hanno protetto per ben 35 anni che questo premio prestigioso oggi è assegnato.
L’essenziale affiora sempre attraverso una privazione. All’origine c’è una mancanza o un’esclusione. Per l’Odin Teatret l’esclusione fu doppia. Volevamo fare del teatro, entrare nell’ambiente e nella storia del mestiere teatrale, e non ci fu permesso. Fummo considerati incompetenti, incapaci, inabili a diventare attori o registi. A quel tempo, nel 1964, non esistevano gruppi di teatro o una cultura teatrale alternativa a cui ispirarci o in cui integrarci. Eravamo esclusi. Il teatro era una necessità nostra, nessuno aveva bussato alla nostra porta e ci aveva pregato di diventare artisti di teatro perché il mondo aveva bisogno di noi. Assumemmo le conseguenze di questa situazione: il teatro era necessario solo per noi, e per questo l’avremmo pagato di tasca nostra.
Questa è l’origine dell’Odin Teatret in Norvegia: un minuscolo teatro dilettante che sogna di diventare professionale, appena cinque persone che debbono apprendere, da soli, l’essenziale dell’artigianato teatrale, in solitudine, al di fuori della geografia del teatro allora riconosciuto e riconoscibile.
Appena due anni dopo, questo sparuto gruppetto di persone si trasferisce in Danimarca, accettando l’offerta straordinaria da parte del comune di Holstebro. Era la prima volta che degli "adulti", addirittura dei politici, ci guardavano negli occhi, conferendo un valore a quello che facevamo. Per la prima volta diventammo consapevoli che avevamo un senso anche per altri.
Trasferendoci a Holstebro subimmo una mutilazione: parlavamo una lingua straniera. Perdemmo la parola, che a quel tempo era il canale di comunicazione essenziale nel teatro. In Norvegia eravamo un gruppo di teatro norvegese, costituito da attori norvegesi, con un autore norvegese, Jens Björneboe, che recitavano per spettatori norvegesi. Ad Holstebro, diventammo un gruppo scandinavo, con attori provenienti dalla Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca con grandi difficoltà a comunicare con i propri spettatori attraverso le parole.
È impossibile comprendere la storia dell’Odin Teatret se non si prendono in considerazione queste due esclusioni: il rifiuto dell’ambiente teatrale e l’amputazione della lingua. Questa situazione di inferiorità e questa mutilazione la trasformammo in onore e fonte di forza. Ancora una volta: dove avremmo potuto apprendere l’essenziale? I viventi non volevano, non potevano. A chi dovevamo rivolgerci?
Il teatro divenne il luogo dove i vivi incontravano i non-vivi. I non-vivi non sono soltanto i morti, ma anche quelli che non sono ancora nati. È a loro che ti devi rivolgere quando il presente non ti prende in considerazione. Allora puoi parlare sicuro con urla e silenzi ai fratelli maggiori che ti hanno preceduto e ai fratelli più giovani che ti seguiranno, a coloro che già esperirono e a coloro che incontreranno le situazioni nelle quali tu stesso ti trovi: derisi dallo spirito del tempo, soli di fronte all’indifferenza della società e al freddo del mestiere.
Le biografie, le opere e i testi dei riformatori del teatro del XX secolo furono i libri ardenti che illuminarono il cammino. Furono le loro fiamme a guidarci verso quel sapere tecnico che è respiro individuale, qualcosa che appartiene solo a te. Così costruimmo i nostri spettacoli, con uno strato di luce e uno di buio, salvaguardando l’essenziale: i dettagli infimi, addirittura invisibili, dove si cela l’abbraccio dei contrari, l’intreccio delle tensioni che permettono alla vita di fluire. Forse i vivi, gli spettatori, non riusciranno a notare questi dettagli, ma i non-vivi, accettano la tua opera e la giudicano per la cura di questi dettagli, per la temperatura personale con la quale alterni gli strati di luce con quelli di buio.
Per raggiungere i non-vivi, quelli che non sono ancora nati, i tuoi spettacoli si devono trasmutare in libri che ardono. Devi scottare la sensibilità dei tuoi spettatori, ferire la loro immaginazione, illuminare le loro ferite intime, spingerli nel panorama muto della loro intimità, in quella parte che vive in esilio dentro di loro. Solo in questo modo l’Odin Teatret può diventare una leggenda che i suoi spettatori trasmetteranno a coloro che non sono ancora nati.
Furono i riformatori del teatro, questi eretici, nichilisti, rivoluzionari o mistici - da Stanislavskij a Grotowski, da Meyerhold a Julian Beck da Artaud a Judith Malina, da Brecht a Copeau, e poi i nostri colleghi latino-americani: Atahualpa del Cioppo, Vicente Revuelta, Augusto Boal, Santiago García, Osvaldo Dragún - furono loro ad indicare come dare il massimo del massimo allo spettatore che viene con un dono straordinario per te e i tuoi attori. Ti regalano due, tre ore della loro vita e si affidano fiduciosi nelle tue mani. Tu devi ricambiare la loro generosità con l’eccellenza, ma anche con un’esigenza: devi metterli al lavoro. Lo spettatore deve essere messo alla prova, deve scalare con tutti i suoi sensi e con tutta la sua esperienza una parete impervia di impulsi e reazioni, di allusioni e significati, deve risolvere in prima persona l’enigma di uno spettacolo-sfinge pronto a divorarlo.
Lo spettatore deve essere cullato dai mille sotterfugi dell’intrattenimento, del piacere sensoriale, della qualità artistica, della raffinatezza estetica. Ma l’essenziale risiede nella trasfigurazione della durata effimera dello spettacolo in una scheggia di vita conficcata nel costato dello spettatore e che l’accompagnerà negli anni. Lo spettacolo, come un insetto, si installa nell’intimo dello spettatore, gli rosicchia il metabolismo psichico, mentale, affettivo, si muta in memoria. Le azioni dell’attore devono marcare in modo anonimo, ma reale lo spettatore. Questo marchio è il messaggio che tu trasmetti a coloro che non sono ancora nati. Devi aprire gli occhi dello spettatore con la stessa delicatezza di come quando chiudi gli occhi ad una persona appena morta.
Questo ci bisbigliarono i libri ardenti dei nostri fratelli maggiori, i riformatori del teatro. È essenziale sbarazzarsi delle illusioni, ma non perdere gli ideali, soprattutto quando i riconoscimenti minacciano di seppellirti vivo in un monumento. Non dimenticare che un buon spettacolo non migliora il mondo, e che un cattivo spettacolo lo rende più brutto.
Devi essere una pietra che non rotola con le correnti del tempo, ma resiste a loro. Devi affondare le radici e abbarbicarti. Le correnti cambieranno, a volte ti sommergeranno, sembreranno cancellarti. Ma tu rimani in vita, ben visibile anche per coloro che non avranno l’occasione di vederti in vita. Ma per arrivare a questo, devi far crescere delle radici, ti è necessaria una terra.
El hombre es tierra que anda, dice un proverbio Inca. "L’uomo è terra che cammina". Questa terra errante è la nostra patria. È costituita dalle azioni di ben precisi uomini e donne. Sono loro la nostra stella polare, l’esempio da emulare, le frontiere da raggiungere. In questa terra fatta di azioni di singoli individui è racchiusa l’essenza muta da trasmettere. Questa terra di individui è sparsa su tutto il pianeta, in molti continenti, in epoche diverse.
Alcune zolle di questa terra sono in Danimarca, hanno nutrito le nostre radici, hanno aiutato l’Odin Teatret a realizzare il suo destino. Prima di tutti, Ole Sarvig e Peter Seeberg, questi eccezionali poeti e romanzieri, che ci incoraggiarono scrivendo delle opere teatrali per un gruppo di teatro sconosciuto. Poi Christian Ludvigsen e Hans Martin Berg che ci guidarono nella nostra ingenuità a portare alla luce quello che ci incalzava dentro. Infine Kaj K. Nielsen e Jens Johansen, il sindaco e il segretario comunale di Holstebro che convincendo un’intera giunta, accolsero l’Odin Teatret senza esigere che ci integrassimo nel piccolo giardino danese. Non domandarono di vedere immediatamente i frutti del nostro lavoro. Lasciarono che uno strano arbusto crescesse secondo il proprio ritmo, seguendo altre stagioni, con i suoi rami selvaggi. E così permisero che l’Odin diventasse una fertile parte di quella molteplicità, diversità ed estraneità che è la nostra cultura contemporanea.
La nostra origine è stata l’ombra, ed è nell’ombra che preferiamo vivere. È nell’anonimo lavoro quotidiano che incontriamo la sfida sempre uguale che mette alla prova l’intensità e la credibilità delle nostre motivazioni. Siamo venuti dal buio e augurateci che quando scompariremo nel buio il nostro ultimo sogno sia come il primo, quello che avevamo da giovani: essere come i nomadi San del deserto Kalahari che si muovono in direzione dei lampi, perché dove c’è tempesta, c’è acqua, vegetazione, vita.
Sono orgoglioso, insieme all’intero Odin Teatret, per questo prestigioso premio Sonning. Però ci è impossibile accettarne i soldi. Il denaro viaggerà altrove diviso in tre parti. La prima è destinata a Holstebro Folkegave, un’iniziativa di associazioni e singoli cittadini di Holstebro per costruire una casa per giovani a Tirana in Albania. La seconda parte attraversa il mare e va a Cuba, alla rivista di teatro "Conjunto" che per 35 anni ha testimoniato la lotta del teatro dell'intero continente latino americano contro la violenza e il sopruso. La terza parte va al nipote di Antigone, il pastore danese Leif Borch Hansen che ha seguito l'impulso della sua coscienza e nascosto dei profughi che la polizia danese doveva rinviare. Non rispettando così le leggi dello stato, esattamente come fecero alcuni danesi dopo il 9 aprile 1940, quando il governo danese chiese ai suoi cittadini di collaborare con gli occupanti tedeschi.
C’era una volta un gruppo di saltimbanchi che abitava nello Jutland occidentale. Viaggiavano per paesini e metropoli, si arrampicavano sull’edificio più alto e attaccavano una fune sul tetto. Gettavano l’altro capo della fune nell’aria e vi camminavano sopra, uno dopo l’altro, concentrandosi per evitare il minimo passo falso che avrebbe compromesso l’equilibrio e la marcia del singolo e dell’intero gruppo. Il loro spettacolo era accolto come una grande impresa artistica. Applausi e riconoscimenti, era veramente avanguardia estrema, sperimentalismo ardito.
Gli anni passarono e i saltimbanchi facevano sempre lo stesso. Non cambiavano, non si adattavano ai tempi, usavano una fune per avvicinarsi al cielo, ignorando le ultime novità tecnologiche: gli elicotteri, gli aerei a reazione, i missili. Non si rinnovavano. I saltimbanchi sembravano sordi a ogni commento e consiglio, si ostinavano a visitare gli stessi posti, a rincontrare i loro vecchi spettatori che col tempo diventavano sempre di meno, e a sorridere ai giovani che non avevano mai visto uno spettacolo del genere: attaccare una fune ad un tetto, gettarla verso il cielo e danzarci sopra. Un giorno scomparvero nel vuoto. La loro fune ondeggiava in un cielo greve di nuvole nere, lampi e tempesta. Le ceneri di un libro bruciato caddero giù, solo una pagina si era salvata. Vi era scritto: "Quello che devi fare, devi farlo, e non porre domande, non porre domande".