domenica 24 agosto 2008

Documentario sul Capo Indigeno Marcos Veron!

Il popolo che per secoli ha resistito alla colonizzazione ora è a rischio di sopravvivenza
Canneti al posto della loro foresta
Dal Mato Grosso alle bidonville
in un film il dramma dei Guarani
Confinati nelle riserve, rioccupano le loro aree, ma vengono picchiati, spesso uccisi
Lo racconta Marco Bechis nel suo "La terra degli uomini rossi", in concorso a Venezia

di LUIGI BIGNAMI

ROMA - Era stato pensato come un documentario-inchiesta sulla triste realtà di un popolo indigeno brasiliano che sta per scomparire insieme alla foresta che l'ha protetto per millenni. Poi l'importanza dei contenuti e la qualità delle immagini lo ho trasformato in un film che concorrerà alla prossima Mostra del Cinema di Venezia.

"La Terra degli Uomini Rossi", per la regia di Marco Bechis, è la storia di un leader del popolo Guarani-Kaiowà che viene assassinato per aver guidato la sua comunità a rioccupare le terre ancestrali. Una storia che ricalca pari pari la vicenda di Marcos Veron, venuto in Italia nel 2000 per denunciare queste violenze e poi assassinato in Brasile.

Ma a fianco di tale tragico evento ce ne sono decine di altri del tutto simili. Multinazionali e grandi industrie stanno facendo il possibile per eliminare i popoli che, pur essendo da sempre proprietari delle foreste amazzoniche, vivono nel cuore delle selve brasiliane, perché si vogliono trasformare queste ultime in immense piantagioni agricole. "Da decenni, il Brasile è uno dei più grandi produttori di biocombustibili al mondo, e la maggior parte delle sue automobili funzionano a etanolo. Oggi, il paese ambisce a diventarne il più grande esportatore con 26 miliardi di litri all'anno entro il 2010. La maggior parte della canna da zucchero, da cui si ricava l'etanolo, viene coltivata in quelle che un tempo erano le foreste dei Guarani. Nel solo stato del Mato Grosso esistono già 11 piantagioni ma altre 30 sono in costruzione e una ventina in fase di progettazione", spiega Francesca Casella, responsabile di Survival International Italia.

Quando gli Europei arrivarono in Sud America, i Guarani furono uno dei primi popoli ad esser contattati. All'epoca contavano oltre un milione e mezzo di persone, distribuiti tra Paraguay, Brasile, Bolivia e Argentina. Oggi ne sopravvivono poche decine di migliaia. I Guarani brasiliani sono suddivisi in tre gruppi, di cui quello dei Kaiowà è il più numeroso (sono circa 30.000). Vivono nello stato del Mato Grosso do Sul, nella zona centro-occidentale del Brasile, ai confini con il Paraguay.

"I Guarani-Kaiowà sono i discendenti di quegli indigeni che, alla fine del '600, rifiutarono di entrare nelle missioni dei Gesuiti. Nonostante secoli di contatto con gli stranieri, hanno mantenuto la loro peculiare identità. Sono un popolo profondamente spirituale. Molte comunità hanno una casa di preghiera comune e un capo religioso, il pajé, la cui autorità dipende solo dal suo prestigio e dalla sua autorevolezza. Sebbene siano suddivisi in gruppi, i Guarani condividono una religione che attribuisce un'importanza suprema alla terra, origine e fonte della vita, e dono del "grande padre" Ñande Ru. Vivono le invasioni delle loro terre non solo come un furto ma anche come un grave attentato al loro stile di vita e alla loro cultura", continua Casella.

I Guarani del Brasile stanno soffrendo terribilmente per la perdita quasi totale delle loro terre, disboscate e usurpate da allevatori e coltivatori di tè a partire dalla fine dell'800. "Mato Grosso" significa "foresta fitta", ma degli alberi non c'è più traccia. Negli ultimi quindici anni, anche le poche terre che i Kaiowà cercavano disperatamente di conservare sono state dimezzate e, oggi, misurano meno di 25.000 ettari. Le loro comunità vivono ammassate in anguste riserve istituite dal governo ai margini delle città: piccoli appezzamenti di terreno simili a bidonville, completamente circondati da ranch e piantagioni. Questi minuscoli fazzoletti di terra non sono sufficienti a sostentarli attraverso la caccia, la pesca e l'agricoltura tradizionali. I bambini soffrono quindi gravi forme di malnutrizione.

"La situazione in cui versano oggi i Kaiowà è spaventosa", sottolinea Casella. "Le loro terre sono state distrutte, i loro leader vengono assassinati e i loro bambini muoiono di fame. Tuttavia, le comunità non desiderano denaro e ricchezza e non ambiscono a ricevere razioni di cibo dal governo. Tutto quello che chiedono è solo terra a sufficienza per sopravvivere e riprendere il controllo delle loro vite e del loro futuro. Senza la loro terra, i Guarani non avranno speranza". Negli ultimi vent'anni, oltre 517 Guarani-Kaiowà si sono suicidati; molti erano ragazzi. La più giovane, Luciane Ortiz, aveva solo 9 anni.

Stanche di aspettare l'intervento delle autorità, da alcuni anni le comunità hanno cominciato a rioccupare le loro terre, un'azione che chiamano retomada, sfidando le violente reazioni dei fazendeiro e dei loro sicari, assoldati per intimidire, picchiare, uccidere. Spesso, i leader delle comunità che rioccupano i loro territori vengono uccisi brutalmente sotto gli occhi dei famigliari. Il dramma dei Guarani brasiliani è solo uno dei tanti vissuti, in vari angoli del mondo, dalle popolazioni indigene che hanno la sfortuna di esser nati in aree che qualcuno vuole convertire in piantagioni di canna da zucchero o palma da olio, disegnando quadri di morte e distruzione del tutto simili.

Tornando al film, vien da chiedersi come sono stati scelti gli attori per interpretare quelle storie così forti e drammatiche. Risponde Bechis: "La risposta alla domanda arrivò fulminea durante un'animata riunione del villaggio: gli indigeni possedevano un'arte retorica sofisticata, sapevano parlare in modo convincente e controllavano le parole e il corpo in modo sorprendente. Da quel momento ho capito che il film sarebbe divenuto realtà solo se fossi riuscito a fare di loro i protagonisti". E così dopo tre mesi di seminari teatrali sono nati i 230 attori indigeni protagonisti del film, che hanno lasciato sullo sfondo i professionisti, come Claudio Santamaria e Chiara Caselli. Bechis li ha scelti nelle comunità vicine ai luoghi di ripresa per non essere separati dalle famiglie e non ha imposto esercizi e tecniche recitative classiche, che ne avrebbero compromesso la spontaneità.

(22 agosto 2008)

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