martedì 27 novembre 2007

Il lavoro di Ygramul - Colloquio con Vania Castelfranchi

Com’è nato lo spettacolo?
"Edzi Re" non è il primo spettacolo che nasce sull’impronta del nostro studio sull’antropologia teatrale: da tanti anni lavoriamo cercando di creare una metodologia di costruzione di uno spettacolo antropologico, che si basa su alcune cose che ha narrato e ha vissuto Eugenio Barba sull’evento che gli attori devono vivere, esperienziale, sulla loro pelle e poi riuscirlo a travasare attraverso una drammaturgia scritta corporea o vocale.
Ci vuole, quindi, un’esperienza fisica molto presente, di reale contatto, senza filtri. Perciò abbiamo fatto viaggi in Brasile, in Amazzonia… e poi siamo andati in questo piccolo paese che si chiama Malawi: in qualche modo era un luogo degli estremi, dove gli attori potevano entrare in diretto contatto con l’estremo dell’Aids. Lo spettacolo è nato da questa idea di viaggio: abbiamo vissuto un mese e mezzo in Malawi, siamo stati in tanti villaggi guidati da una sorta di capa che si chiamava Imafuta. È una capa di un’associazione di persone che hanno avuto dei parenti morti per Aids e che organizzano una specie di soccorso nei villaggi per portare materiali ma soprattutto per portare informazione attraverso questa donna. Da questo viaggio nasce una parte del testo molto diaristica, nel senso non sciocco del termine: non semplicemente fatta da quello che ci è accaduto, ma da quello che si è vissuto personalmente… anche dalle contraddizioni, da quello che si potrebbe chiamare "La mia Africa" per ogni attore. La drammaturgia è questa rete di pagine, scritti, anche idee molto spesso vocali e corporee, fotografie e filmati che vengono da dieci teste diverse che hanno vissuto quel viaggio.
Dall’altro lato si affrontano dei temi solitamente nei nostri percorsi di viaggio, come un antropologo che va a studiare un luogo e si immerge in quel luogo ha bisogno di un filtro: deve avere una tematica, una sorta di corrimano, altrimenti il labirinto è troppo complesso. Noi avevamo come tematica quella dell’Aids, sviluppandola lì abbiamo cominciato a collegarci dei testi. Un testo col quale eravamo già partiti, che era lo spettacolo che facevamo lì in Africa, era, appunto l’Ubu Re, perché dal nostro punto di vista una delle tematiche molto forte sull’Aids era la quella del re, del regno: lavorando a Roma con dei malati di Aids in alcune comunità, una delle tematiche più belle sulle quali il lavoro era stato stimolato era che in realtà questa malattia veramente non si comprende se esista o meno, se ci sia, è più come una dittatura. Si entra in un clima che è questo della sieropositività come se si fosse dentro a un regime autoritario e molto forte, dove uno sente che gli sono negati tutti i diritti però nella concretezza non è sicuro di vederla questa cosa: sa che non si può affaticare, sa che non si può ammalare in nessun modo, sa che si deve proteggere da tutte le altre persone perché ognuno porta dei germi che gli fanno del male, sa che deve avere una terapia molto intensiva costosissima, che non si può permettere quasi sempre. Ma queste informazioni sono tutte condizioni veramente da dittatura: nessuno ha la certezza che tutto questo sia vero, perché i medici non sono certi al cento per cento, nemmeno gli psicologi, nessuno ha la certezza.
Quindi avevamo lavorato sul concetto del regno, sull’Ubu che è un re, un re assurdo, folle, patafisico, e al nostro ritorno abbiamo acchiappato le parole di Sofocle sul re Edipo, perché veramente in maniera profonda con Sofocle riuscivamo a capire come il concetto di regno e di re è quello di non coscienza, cioè dove si accetta un re e una dittatura non c’è la coscienza, perché il re - come Edipo - è il primo a non avere coscienza di quello che ha fatto, dei reati che ha commesso e quindi più il popolo accetta il re più il popolo si addormenta e diventa lui malato.

Perché rappresentare la vostra esperienza con una scenografia del genere, a me ha dato la sensazione che fosse qualcosa di realmente pesante e però qualcosa attraverso la quale si poteva anche urlare?
In realtà ci sono, come al solito, tante connessioni però, fondamentalmente erano importanti vari elementi: prima di tutto il fatto che noi ci affidiamo al ferro e viviamo in strutture fatte di ferro e di cemento che crediamo solide, mentre nello spettacolo si capisce come tutte le figure geometriche ferrose, in realtà, si smontino con grande facilità. Questa è la prima sensazione che volevamo dare, di questa falsa sicurezza che il metallo e la geometria ci danno.
La seconda cosa che il lavoro degli attori in scena, per me, deve essere sempre molto, molto fisico, molto concreto, per riportare alla vita durante lo spettacolo l’esperienza. Creare delle imprecisioni, creare dei grandi momenti di imprevedibilità e di imprevisto, permette di rendere nello spettacolo una parte quasi performativa: le cose avvengono in quell’istante. Mentre, viceversa, in metodi di grande fissità, di grande struttura, c’è una grande pulizia che è meravigliosa anche esteticamente, però rischiano spesso la morte rispetto a quello che diceva anche Julian Beck, cioè la non vita del teatro.
È importante che anche gli spettatori avvertano questa comprensione reale: lo schema può perdere pezzi, le viti si smontano e nessuna cosa può essere realmente controllata o inscritta in una forma geometrica, ma si spezza se uno la forza. Quindi anche tu che ti siedi in uno spazio teatrale che è ben geometrizzato e ben costruito devi sapere che in realtà un evento di rischio c’è anche per te, perché è un falso storico che tu sei protetto dalla tua sedia e dal tuo posto di spettatore.

Quindi come avete lavorato per la costruzione dal testo scenico? Quelli erano gli attori che interpretavano dei personaggi o eravate voi?
È una cosa un po’ brechtiana… Rappresentano se stessi trasformati in personaggi.
Il testo ha un passaggio molto strano: di solito iniziamo lo spettacolo in italiano, lo portiamo in un luogo e lo traduciamo nella lingua locale, mentre quando si torna si scarica di questo peso linguistico e si riprende l’italiano, che però si porta addosso un sacco di ombre belle di quelle sonorità. Quindi nello spettacolo sbuca fuori l’africano, poi c’è una cosa in inglese, poi c’è un suono francese… Perché io amo molto lo sporco in realtà, il lavorare al non finito, il lasciare un sacco di chiaroscuri e un sacco di ombre. Ritengo che gli attori siano sporchissimi di per sé, che i nostri corpi siano meravigliosamente sporchi, slabbrati… ognuno è sdentato, c’ha delle forme fisiche diverse, grandezze, carni, cicce, gonfiori…e questa cosa è assolutamente da privilegiare da parte di un regista. Un regista dovrebbe fare la radiografia dei propri attori e non portarli in un campo di sterminio cercando di renderli tutti più magri possibile, ma portarli al gonfiore di Ubu, a fare esplodere i propri bubboni e deformarli il più possibile, questo in bellezza, in un gioco circense quasi…
Lo amo molto questo, che è l’obiettivo da raggiungere. Stiamo sul primo gradino però è in qualche modo il miraggio, no? Quindi il testo passa attraverso queste lingue, si mischia… Poi ci sono i diari: anche quelli passano attraverso i conflitti perché noi ci incontriamo dopo il viaggio, uno legge la sua pagina di diario, l’altro legge la sua di quella stessa visione e si ammazzano tra di loro, perché hanno vissuto due cose all’opposto e allora non c’è compromesso. C’è uno scontro violentissimo che non è salvabile e allora da questi scontri nasce il testo, perché il testo, per me, deve essere appunto il più paradossale e violentemente percussivo possibile, come in Jarry.

Fabio Franceschelli: siccome in gran parte venite dall’Accademia, per voi è stato un problema liberarsi dalle impostazioni accademiche?
Si, perché all’accademia il fine è il mezzo. La grande difficoltà, la prima, che ho trovato con gli attori, è convincerli che il loro mezzo è buonissimo, il loro strumento è buonissimo, l’accademia gliel’ha tutto lavato e ripulito, ma ora è il momento di usarlo male. È veramente difficile perché non si lasciano andare. Gli attori dell’accademia sono i primi con i quali si fa a botte perché è difficile convincerli che il mezzo deve essere pulitissimo ma per fare una cosa, confusissima, sporchissima, disordinatissima. È un discorso per me molto organico. Stiamo creando una metodologia di lavoro nostra che si chiama Esoteatro e che si basa sulla disorganicità, di Artaud, fondamentalmente dal Teatro della Crudeltà. Pensare che noi abbiamo un corpo che apparentemente è molto pulito ed ordinato… In realtà è totalmente disorganico: gli organi si spostano e viaggiano dentro di noi, le energie non sono minimamente controllabili, le scariche elettriche vanno dove caspita vogliono, le malattie sorgono come gli va perchè non c’è nessuna ragione fondamentale e noi fingiamo di dare il potere alla medicina, di capire di fare una mappatura… Ma che in realtà bisognerebbe, come nei metodi tibetani, nei metodi indiani, lasciarsi trasportare da questo disordine continuativo, che è una fiumana di roba che succede. Perché ti permette di non contrastare la corrente, di viaggiarci e forse di vivere fino a trecento anni senza farti venire il tumore e di lavorare con cento voci invece che due.

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